Ah, quanto vorrei avere una risposta chiara, netta e di immediata comprensione per il lettore. Ma devo deludervi subito. Non è cosi.
Questo libro non è nato da un’intenzione premeditata e orientata verso uno scopo ben preciso.
Era da tempo che sentivo ribollire dentro di me il desiderio di… metter giù parole. Mi si perdoni questa prima genericità. Non parole a casaccio ovviamente. Ma parole, quel tipo di parole che traducono sensazioni e che a volte spingono da dentro affiorando in maniera anche piuttosto disordinata come fossero ciottoli che saltano fuori da un percorso sterrato che piano piano prende coscienza di voler diventare una stradina lastricata. Come se fosse il sentiero stesso a desiderare di rendersi più facilmente percorribile, avanti e indietro, rendendo più confortevole, proprio grazie alle parole, l’osservazione serena di paesaggi, anche già osservati in passato, che forse non hanno ancora finito di cedere allo sguardo la propria unicità e la propria bellezza. E con esse i propri messaggi.
Da anni le persone a me vicine, ritenendomi discretamente capace nella scrittura, mi incoraggiavano a dar vita un libro professionale sui temi legati al mio lavoro. Un bel titolo accattivante di quelli che adesso fioccano come funghetti nel sottobosco dopo le prime piogge d’autunno. Il giorno prima niente e la mattina dopo pieno. Che poi molti sono anche belli e buoni “da mangiare”.
Insomma, un bel titolo accattivante, una struttura facile, informazioni e consigli messi giù per motivare all’adozione di buone pratiche alimentari e di vita in genere, un bel self-publishing veloce, un prezzo accessibile e una distribuzione immediata su Amazon.
“È un modo per farti conoscere di più, per aumentare il tuo giro di clienti e che ti darà ulteriore visibilità”. “Con la penna ci sai fare abbastanza bene. Dai, è venuto il momento di scrivere un libro professionale tutto tuo!”
Non escludo di farlo in un prossimo futuro. Ma se non l’ho ancora fatto è perché non ho ancora idea di come tenermi lontana dal calderone del déja vu, déja lu, e dello sfruttamento ormai quasi esasperante di tutto il tema legato al vivere sani secondo regole, ricette e consigli degli esperti. Sì lo so, è il mio campo, ma cerco di affrontarlo in maniera il più possibile scevra da un eccessivo condizionamento business-oriented e per questo, al momento, non mi sento sufficientemente motivata a partorire un nuovo gioioso manuale di consigli e ricette. E ovviamente non intendo solo di tipo culinario.
Però l’idea di scrivere e di condividere qualcosa che facesse parte delle mie riflessioni e del mio percorso personale e professionale, mi piaceva e mi solleticava da un po’. E così nel cassetto avevo i proverbiali fogli sparsi dello scrittore amatoriale, quello che immagina con tiepido convincimento che forse “un giorno” quegli scritti potrebbero diventare un libro. O, forse anche più semplicemente, un blog letterario.
Poi la pandemia. Questo terremoto socio-politico-sanitario mi ha offerto l’occasione su un piatto d’argento. Nei mesi in cui eravamo tutti chiusi in casa, attoniti, spaventati e terribilmente confusi, incapace di starmene con le mani in mano e, dopo poche settimane, stufa di pulire casa e passare il tempo in cucina, iniziai a rifugiarmi nella scrittura.
Scrissi molto. Lasciando fluire il pensiero in una sorta di vera e propria trans come mai, dico mai, avevo sperimentato prima di allora. Sicuramente quella condizione di “vuoto del dover fare” si è rivelata per me (e non solo per me visto che in quei mesi sono fioriti molti libri e molte altre creazioni artistiche in tutto il mondo) estremamente fertile. Avevo bisogno di questo stop forzato per poter attingere ad una parte della mia creatività che stava lì latente sotto il peso delle lunghe e interminabili “to do list” quotiane.
Così, giorno dopo giorno, senza quasi me ne rendessi conto, il personaggio di Gemma ha iniziato ad assumere una fisionomia ben riconoscibile incarnando nel proprio temperamento e nella propria storia parte di me, parte delle donne nelle quali mi sono rispecchiata durante la vita privata e professionale, e parte di quell’energia che da molto tempo (ma me ne sono resa conto solo nel divenire del libro) avevo voglia di trasmettere e condividere con le altre donne. Sicuramente quelle della mia generazione. Ma anche le trentenni, le quarantenni e le over sessanta!
Tanto che se Isabel Allende, che amo svisceratamente, non mi avesse rubato il titolo (!!) avrei potuto intitolare il mio romanzo “Donne dell’anima mia”. Perché la vera guarigione, e questa non è teoria recitata bensì profondo convincimento maturato camminando a piedi nudi su quel sentiero sterrato e pieno di “pezzi di vetro” è, per ognuna di noi, scoprirsi, ritrovarsi e riconoscersi. Che poi è la più emozionante delle avventure, come afferma la voce narrante che descrive questo tumultuoso divenire di Gemma all’alba del suo cinquantennio.
Il libro in questo senso si è formato da sé, trovando il proprio filo conduttore, il proprio disegno, la propria solida struttura e la propria rosa di messaggi.
Le radici, i limiti, le risorse, le delusioni, le soddisfazioni, le ferite, tutto concorre a sospingerci in avanti e a ricostruire la nostra immagine. E quando ad un certo punto ci fermiamo a guardare indietro la strada percorsa, la riconosciamo? E noi, guardandoci allo specchio, ci riconosciamo?
Siamo noi. Siamo meravigliosamente e dolorosamente (ma senza enfasi e pesantezza per carità!), donne. Siamo sorgente di inesauribile creatività, leggerezza e amore per la vita. Tutte. Ognuna con il proprio percorso.
Tutte accomunate dal “dovere” di restare vive e di esprimere la nostra vitalità. Nella gioia e nel dolore. Perché è con la vita che siamo unite visceralmente e inscindibilmente. E questa simobiosi è la nostra vera medicina.
Alla fine ne è nato uno scritto che ha voluto miscelare spessore e leggerezza. Ci sono riuscita? Sarò felice di avere il vostro feedback.
Buona lettura!
Grazie
Daniela