Ogni terapeuta sa che per molti versi è più facile confrontarsi con un sintomo acuto piuttosto che con uno cronico.
Il sintomo acuto di solito si manifesta all’improvviso, interponendosi con una certa imperiosità tra la persona e lo scorrere della sua vita: pretende attenzione, strilla la propria presenza, minaccia di fermare il mondo e obbliga ad una ridefinizione solerte delle priorità.
Il cronico invece ha un altro carattere: si intrufola quasi sempre in sordina e poi se ne sta lì, per mesi, a volte per anni, come un persistente lamento di sottofondo che non interrompe il flusso della quotidianità, non impone nessuna urgenza ma prende fissa dimora nel corpo. E obbliga ad una convivenza logorante, spesso frustrante, che peggiora in maniera sensibile la qualità della vita.
Nei confronti del sintomo acuto, la medicina e tutte le arti di cura ad essa integrative e/o complementari, escluse le discipline bionaturali che per loro natura non si occupano dell’acuto, dispongono di un paradigma interpretativo, di un set di strumenti, farmaci e rimedi con cui “contrastare”, se si adotta un approccio oppositivo, o “far rientrare”, se si utilizza una logica più causalista, la manifestazione che si esprime in maniera tanto prepotente.
Pensiamo ad un forte mal di stomaco, ad una sciatica, ad un’ eruzione cutanea, una pressione che si alza all’improvviso, una febbre acuta, una colica intestinale, una faringite, ma anche un sovrappeso o un dimagrimento improvvisi.
In questi casi il sintomo, in qualche modo, reagisce sempre all’intervento di cura. Continua a strillare, oppure abbassa il tono o addirittura si manifesta in maniera ancora più forte. Qualsiasi risposta è meglio di nessuna risposta. E solitamente l’acuto, in un modo o in un altro, restituisce un feedback all’azione terapeutica. Il che consente, eventualmente, di aggiustare la propria strategia di intervento e di aiuto.
Con il cronico è tutta un’altra storia. Ed è su questo terreno che si gioca la partita più complessa, frustrante e qualche volta disarmante della coppia paziente-terapeuta.
Pensiamo ad una fibromialgia, ad una rosacea, ad un intestino stitico “da sempre”, ad un insonnia di vecchia data, ad un mal di testa riottoso a tutti trattamenti dei centri specialistici, ad un’asma che non se ne va mai, ma anche ad un sovrappeso resistente nonostante l’applicazione di tutte le regole alimentari. La lista è infinita. Le provi tutte ma le risposte appaiono deboli. E la lagna del corpo è continua e snervante.
Magari dopo un po’ ti sembra che la situazione migliori. Ma no, ti sei sbagliato. Poi ricomincia come prima, anzi leggermente più marcata. E allora sei lì che ti destreggi tra mille rimedi, centomila approcci alimentari, decine di farmaci, ma non ne vieni mai veramente a capo.
Intanto la vita continua. Si ufficializza questa scomoda convivenza. E tiri avanti.
Eppure è proprio al sintomo cronico che dovremmo prestare un ascolto intimo e a tu per tu. Anzi, diciamola ancora più osée, è al sintomo cronico che dovremmo dire grazie.
Sì, lo so, sembra la solita tiritera di chi ti racconta che in ogni disturbo o malattia c’è un messaggio da comprendere e tu lì per lì resti, forse, un po’affascinato dall’idea e pensi che se ti applichi per bene e ti sforzi di capire, o almeno intuire qualcosa, poi “guarisci” davvero e per sempre. Magari ci provi anche ma poi vedi che non è così semplice e immediato e intanto quel dolore ti sfinisce, quell’insonnia ti tormenta, quel sovrappeso ti toglie tutta la gioia di vivere che vorresti solo…nasconderti, e quindi faresti qualsiasi cosa e pagheresti qualsiasi prezzo affinché qualcuno, in qualche modo, potesse aiutarti a risolvere il problema. Abbandoni ogni visione “altra” della malattia/disturbo e torni a guardare al corpo come una macchina biofisica in cui si è rotto qualcosa e siccome tu non ci capisci niente di meccanica corporea ci deve essere da qualche parte nel mondo, qualcuno che ne sa di come riparare quel guasto e restituirti la libertà di una vita…normale.
Insomma, diffusa e dura a morire è la logica secondo cui, ad un certo punto, nel nostro corpo avviene qualcosa di sbagliato. E questo ci riporta inesorabilmente ad una dinamica oppositiva con la malattia/disturbo.
In maniera più o meno mascherata, anche quando vogliamo credere che il sintomo abbia un messaggio da comprendere, ci figuriamo una parte sana di noi e una parte alterata verso la quale, nonostante alcuni sforzi di comprensione, tendiamo a sviluppare un sentimento di più o meno malcelata insofferenza ed estraneità perché di fondo quel linguaggio noi non lo capiamo e il dubbio che non ci sia niente da capire ma solo da riaggiustare è sempre lì come un grillo parlante. Almeno finché guardiamo, ascoltiamo e ragioniamo su di noi e il nostro sistema bio-psico-fisico solo con l’emisfero cerebrale sinistro.
Indubbiamente non è un processo facile. Perché il sintomo cronico è un maestro impietoso e spessp criptico. È come quei monaci tibetani, saggi e di poche parole, che non danno mai una risposta chiara alle accorate e insistenti domande del novizio. E se lo facessero inficerebbero la sua evoluzione. Che è lo scopo. Quindi si limitano ad invitarlo, con espressione imperscrutabile e parole spesso enigmatiche, a guardarsi dentro e intorno più e più volte, fino a trovare, da solo, le risposte che lì di fronte ai suoi occhi giacciono manifeste.
Ma è necessario che il novizio cambi prospettiva altrimenti non troverà mai il senso dei suoi perché e resterà lì ad implorare aiuto dall’esterno.
Nell’interpretazione analogica del linguaggio del corpo, c’è un aspetto fondamentale da tenere ben presente. Il corpo fa sempre tutto a fin di bene. Sempre. Pertanto anche quando ci riferiamo a conflitti interiori, dobbiamo fare attenzione a non ricadere nella logica interpretativa della guerra tra parti interne. Perché questo approccio rischia di diventare fuorviante e di riportarci alla visione oppositiva di qualcosa che agisce “contro” qualcos’altro. Tipo un’emozione, paura o rabbia, che vuole manifestarsi e un’altra parte, solitamente mentale che la blocca. Azione contro azione. Oppure un’intenzione positiva, ad esempio seguire un nuovo regime alimentare e una parte interna che invece boicotta questo progetto facendolo fallire per l’ennesima volta.
All’interno del teatro delle nostra coscienza, esperienze ed emozioni si intrecciano dalla nascita dando vita ad un’articolata rappresentazione di varie componenti del Sé che nel viaggio della vita consentono all’anima di esprimersi e fare esperienza attraverso questo corpo fisico. Il punto è che tutte le componenti interne al nostro sistema agiscono sempre e solo unicamente per il nostro massimo bene facendosi in quattro per rispondere all’impegno primario assunto ad un certo punto del percorso.
Quindi, in buona sostanza, non dobbiamo temere mai nemici interni o parti che ci boicottano.
Ma forse solo qualche Hiroo Onoda da scovare, riconoscere e da ricondurre gentilmente a casa.
Hiroo Onoda era un soldato giapponese addestrato come guerrigliero presso la scuola militare di Nakano. Nel secondo conflitto mondiale fu inviato insieme ad altri militari sull’isola di Lubang, nelle Filippine, con l’ordine di ostacolare l’avanzata nemica e di non arrendersi mai a costo della sua stessa vita. Quando nel 1945 gli Alleati imposero la resa e il Giappone dovette accettare la sconfitta, Hiroo Onoda si trovava nella giungla impegnato ad onorare la parola data alla sua nazione. Aveva già trascorso diversi anni nelle zone più impervie di quell’isola, di cui ormai conosceva alla perfezione in ogni più piccolo anfratto, e continuava ad agire in nome dell’onore giurato allo stato nipponico. La guerra finì. I militari giapponesi tornarono a casa. Onoda continuava a combattere nella giungla dell’isola, a tendere imboscate ai locali e a rinnovare dentro di sé la lealtà alla propria nazione. Per i primi anni, il soldato giapponese non venne mai a conoscenza della fine del conflitto. Quando poi gli giunse notizia, si rifiutò di credere che la sua nazione si fosse arresa e considerò quella comunicazione solo come propaganda di guerra da parte del nemico.
Restò nascosto sull’isola per circa trent’anni, ormai solo, continuando ad attuare azioni di guerriglia contro l’esercito statunitense e le forze filippine locali. Furono molti, nel tempo, i tentativi di rintracciare il “soldato fantasma” che sull’isola creava non pochi problemi denunciati più volte in Giappone dalle autorità locali filippine. Ma nessuno riusciva a trovarlo. Ci provarono in tanti. Perfino alcuni membri della sua famiglia. Niente. Onoda era introvabile, e quell’isola troppo impervia. Fu il maggiore Taniguki, l’ufficiale capo di Onoda al tempo della guerra, che ad un certo punto, ormai vecchio e in pensione, si offrì di andarlo a cercare. Taniguki sapeva benissimo che se avesse cominciato a perlustrare l’sola per scovare Onoda non l’avrebbe trovato. Nessuno sarebbe riuscito perché nessuno conosceva quell’isola alla perfezione quanto lui. Ma il maggiore sapeva chi era Onoda. Decise pertanto di aspettarlo sulla spiaggia. Si sistemò in un posto ben visibile, accese un fuoco e si sedette ad aspettare. Non ci volle molto perché Onoda, che dai sui nascondigli presidiava tutta l’isola, vedesse e riconoscesse il maggiore Taniguki.
Era il tramonto. Ed ad un certo punto Taniguki vide avvicinarsi da lontano la sagoma di un vecchio soldato che camminava, lentamente ma senza esitazione, verso di lui. Onoda si portò al cospetto del suo maggiore. E giunto di fronte a lui depose l’arma e si inchinò in segno di rispetto. “Ho fatto il mio dovere, Signore” – disse Onoda. “ Lo so” rispose il maggiore che a malapena riconosceva quel soldato invecchiato e provato dalle difficoltà della vita nella macchia. E a sua volta si inchinò di fronte a lui. Cosa che in Giappone un ufficiale non fa mai di fronte ad un soldato.
Solo quando lo sentì dalla bocca del suo diretto ufficiale, Onoda si convinse che la guerra era finita E finalmente fu possibile ricondurlo in Giappone dove venne accolto e celebrato dal governo con tutti gli onori. E poi, invece di essere mandato in pensione in un modo che per lui sarebbe stato deleterio dopo tanti anni di vita nella giungla, gli venne assegnato un nuovo incarico nella società civile come massimo riconoscimento al valore.
Cosa sarebbe successo se il maggiore Taniguki avesse rimproverato Onoda dicendogli “ Porca miseria! Sono anni che ti cerchiamo! Ci hai creato un sacco di problemi! Ma come hai fatto ad essere così stupido da non capire che la guerra era finita già da trent’anni?! Adesso pagherai le conseguenze di questa tua ottusità.”
La storia parla da sé.
Proprio come il soldato giapponese, il sintomo cronico sta quasi sempre proteggendo un territorio in nome di una lealtà estrema all’organismo e all’incarico che l’organismo stesso gli ha affidato, magari in un passato a volte anche piuttosto lontano. Se a quel sintomo andiamo incontro con la finalità di domarlo solo con farmaci e rimedi, ma ignorandone di fondo la ragion d’essere e lo scopo, con molta probabilità non lo risolveremo. Al contrario, l’atteggiamento oppositivo gli darà più forza proprio come quando Onoda veniva cercato dai soldati filippini o dai suoi connazionali nipponici, e si dava alla macchia per poi dare ancora manifestazione di sé con una nuova imboscata.
Decodificare il messaggio specifico del sintomo non è sempre facile ma alla fine, ed è questo i punto, non è neanche così necessario.
Perché anche se non ne comprendiamo chiaramente il senso, di una cosa possiamo essere certi. La sua presenza ha, o ha avuto in passato, una funzione positiva per il nostro adattamento alle circostanze di vita.
E allora l’unica cosa che possiamo fare, è agire come il maggiore Taniguki.
Sederci con pazienza. Nel nostro caso, metterci in ascolto con pazienza. E attendere che quel soldato si avvicini. Poi parlargli dal cuore e onorare il contributo fornito.
Sembra una cosa per matti, ma in realtà, fatto nel modo giusto, è un esercizio che ci permette di entrare attivamente in contatto con alcune parti molto profonde di noi stessi.
E nella mia esperienza, trovare un momento appositamente riservato, a tu per tu con quelle parti di noi, comunicando a voce alta, evidentemente in uno spazio privato e protetto e con autentica disposizione d’animo, muove spesso un importante processo interiore. E libera emozioni importanti.
La profonda autenticità con cui ci disponiamo a condurre questo dialogo fa, evidentemente, la differenza. Se non lo sentite, evitate di fare del teatrino inutile. Se lo sentite, ne intuite il senso e scorgete qualche Onoda tra le pieghe dei vostri sintomi, fatelo. Anche due o tre volte. Sarà una componente estremamente importante del processo di cura. Sperimentate.
Qui, in conclusione, un piccolo esempio esplicativo. Anche se generalizzare è sempre limitativo. Perché ognuno trova le proprie parole e il proprio dialogo. Se lo sente.
Ma, solo per fornire una traccia generica, ecco alcune frasi da cui eventualmente trarre spunto.
“Grazie. Grazie per quello che hai fatto per me in tutto questo tempo. Grazie per aver agito a mia difesa e unicamente per il mio bene. Sei una parte di me e anche quando io non capisco bene il perché del tuo agire, di una cosa non dubito mai: della tua lealtà nei miei confronti. E del fatto che grazie a te e al tuo costante richiamo sono riuscito/a ad adattarmi al meglio a quelle circostanze. In quel momento ho creduto che … ho provato emozioni di… ho sperimentato un…
Adesso però la guerra è finita. La sfida è conclusa. Non ho più bisogno di essere protetto/a…(ad esempio ) di svegliarmi ogni notte per assicurarmi di…, essere protetto dalla mia rabbia attraverso quel dolore…di nascondere la mia femminilità per non avere tentazioni e … trattenere quella paura per non far vedere, etc.
Adesso puoi riposarti anche tu. Puoi crederlo davvero che la guerra è finita. Perché (ad esempio) questo corpo grosso e pesante adesso mi impedisce di… questo dolore fisso mi impedisce di….questo respiro affannoso mi impedisce di…
So che tu puoi aiutarmi. So che puoi sostenermi in questo passaggio. Io posso dirti di cosa ho bisogno e poi lascio a te la libertà di trovare il modo di continuare ad aiutarmi… come hai sempre fatto, trovando soluzioni funzionali al mio bene…(continua).
Grazie. Grazie per la tua onestà e per la tua lealtà. Adesso siamo liberi e possiamo andare oltre. Insieme”.
Articolo pubblicato su L’Altra Medicina Magazine – n° 100 – Novembre 2020 –
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